La constatazione sembra paradossale: Deleuze non ha certo mai nascosto il suo interesse per la musica, ma non ha mai, o almeno troppo raramente, intrapreso una effettiva riflessione sull’argomento. Una volta fatta questa osservazione, non ci resta che prendere in considerazione il modo in cui la musica sorge come trasfigurata dopo essere rimasta per qualche tempo nelle pieghe dell’opera di Deleuze. Ciò che viene detto su di lei infatti importa meno della considerazione che noi ne abbiamo, una volta compreso che nessuna teoria estetica in Deleuze saprebbe sfociare nell’assoluta autonomia dell’arte, nella sua irriducibilità assoluta e imperativa. E così noi siamo in qualche modo costretti a riflette sul posto che occupa la musica nel campo della filosofia, come un insopprimibile desiderio di produrre pensiero in suoni, in idee acustiche radicali, che non è possibile identificare con nessuna figura concettuale e compositiva prestabilita.
L’impossibile traversata della musica nella filosofia e inversamente della filosofia nella musica può essere comparata a una incessante variazione sul tema: come rendere conto di ciò che si produce con la musica? Come renderne conto in atti e concetti? Da questo punto di vista, la filosofia di Deleuze mi pare abbia sempre problematizzato una sorta di utopia intrinseca a ogni discorso sulla musica. In effetti, se si accetta il postulato secondo il quale la musica è una attività interamente creatrice, esattamente come la filosofia ad esempio, siamo da subito condotti a vedere il luogo di questa pratica come una regione del pensiero, al tempo stesso singolare e universale. La musica non si presta facilmente all’esercizio del commento. Così, vorrei richiamare in primis il momento storico ed esemplare in cui, invitato da Pierre Boulez a fianco di Michel Foucault e Roland Barthes, Deleuze di recò all’
Ircam, per reagire, secondo il desiderio di Boulez, a cinque opere che quest’ultimo aveva attentamente selezionato: il
Concert de chambre di György Ligeti, il
Dialogue du vent et de la mer di Claude Debussy, i
Modes de valeur et d’intensité di Olivier Messiaen,
A Mirror on Which to Dwell di Elliott Carter e Éclats di Pierre Boulez. Tale esperienza elaborata secondo una modalità molteplice, analitica, clinica, estetica e filosofica era collocata sotto un tema caro a Deleuze: il tempo musicale. Ora, il primo gesto di Deleuze, il cui dattiloscritto dell’intervento corretto di suo pugno è stato pubblicato di recente, fu di esplicitare le ragioni per cui un non-musicista, nello specifico per Deleuze una persona non effettivamente abilitata a parlare in nome della musica, risponde alla richiesta di una personalità musicale così eminente, come Pierre Boulez. Il suo intervento, esordendo con «Perché noi, non musicisti», fa intendere ciò che il termine tempo poteva veicolare di molteplicità e di variabili, senza per questo «innalzarsi verso un concetto astratto».
In effetti, durante il suo intervento, Deleuze ha l’aria di rispondere a Boulez: perché siamo stati convocati qui, noi che non siamo in alcun modo il musicista che lei è, per reagire all’ascolto di cinque opere che non sono assolutamente in alcun rapporto di filiazione o di rottura della filiazione? Estrarre ciò che egli chiama «profili particolari del tempo, per poi in seguito sovrapporre tali profili a farne una vera cartografia delle variabili», significava impostare da subito l’idea che la musica è tempo in perpetua eterogenesi di se stessa, una sorta di traccia di immanenza su cui i compositori sagomano ciò che si potrebbe designare, senza tradire la intenzioni di Deleuze, tramite delle dei vagli empirici delle forme sonore, una maniera di
Differenza e ripetizione specifica alla composizione, senza esclusioni di repertorio e senza divieti.
L’assunto di Deleuze, come prevedibile, non consiste nel commentare le opere facendone da subito l’oggetto di una interpretazione di Boulez. Sarebbe stato questo un metodo troppo prossimo alla glossa o a un pensiero critico piatto, senza asperità né contingenza, per soddisfare momentaneamente il filosofo. L’ascolto di Deleuze è qui quello di un artigiano della percezione, che non esita a sottolineare gli spasmi e le fratture temporali inscritte nei repertori così diversi come quelli che è invitato a seguire. Da questo punto di vista, al compositore e agli interpreti non resta che far ascoltare, in una difformità reale dal senso comune, una figura prolissa di tempo, portata da una materia contemporaneamente consistente e ideale. È proprio del compositore far coagulare questi profili di tempo, in modo che ne risulti una ritmica di senso temporaneamente intemporale, resa istantanea per l’orecchio, ciò che Deleuze, in riferimento alla pittura di Bacon, intravedeva come «una comunicazione esistenziale che andrebbe a costituire il momento patico della sensazione».
Una musica senza pesantezza temporale sarebbe per Deleuze una maniera di non-rappresentazione della musica, che si nutrirebbe soltanto del ritmo che l’abita, con la facoltà inalienabile di suddividere delle categorie temporali, di raffigurare, nell’accezione letterale del termine, delle simbiosi, delle durate, come quelle del tempo
pulsato o
non pulsato tanto spesso invocato da Boulez. L’unico modo per Deleuze di liberare la musica dal suo inviluppo sonoro, dal suo corpo e dai suoi organi acustici, di restituirla alla dimensione nomade originaria a cui essa apparterrebbe. Liberare il tempo dal gravame e dalla ipoteca della durata. Questa è l’intenzione filosofica delle varie enunciazioni lapidarie di Deleuze. Ascolto soggettivo delle opere? In ogni caso egli mette l’accento sul parametro che per definizione non cessa nel campo della scrittura musicale di reintrodurre una dialettica formale e sintattica, là dove risiede la volontà di far esplodere le gerarchie parametriche del suono. Non il tempo, non il ritmo, ma il più piccolo denominatore comune al tempo e al ritmo: la durata.
Altrimenti detto, la musica, sebbene anche la storia della filosofia la eriga quale come arte del tempo
par excellence, non è assegnabile a un tempo dato, ma a delle durate, in modo che le procedure di composizione, la poietica musicale colta nei suoi congegni interni di notazione interpretazione, verrebbero ad articolare delle velocità. Prospettiva eminentemente deleuziana, che Deleuze stesso non manca di interrogare, addirittura di mettere in discussione in modo netto. Infatti in che modo le durate vanno ad articolare dei profili di tempo che passano da una facoltà all’altra, da un senso all’altro, facoltà e sensi reincatenandosi incessantemente? «Poiché evidentemente ci si è privati del ricorso alla soluzione più generale e classica che consiste a dare allo spirito [alla mente] la premura di apporre una misura comune o una cadenza metrica a tutte le durate vitali. Dall’inizio questa soluzione è bloccata».
Mediante quali circuiti, attraverso quali segmentazioni e biforcazioni, per quali cesure dello spirito, tramite quale percorso rizomatico Deleuze assimila delle durate musicali a delle durate vitali, senza temere di scivolare verso una tautologia di principio? La musica è evidentemente un luogo ove coabitano differenti velocità, ripetizioni di velocità: un luogo di velocità per la velocità, un luogo che esalta la velocità in quanto questa si erge come pura entità dinamica cosa che Deleuze designa con «tempo fluttuante», sinonimo di ciò che Proust chiamava «un po’ di tempo allo stato puro».
La musica sarebbe allora per Deleuze ciò che realizzerebbe una forma di presentazione del tempo che eccede la sua stessa rappresentazione nel senso hegeliano del termine; una forma d’azione, di individuazione di un pensiero che si autopresenta, si autogestisce e si autogenera in successioni non limitative di fenomeni e di molecole sonore? In breve, un ordine astratto che attualizza una potenza di avvenimenti. Siamo ancora e sempre con la musica, secondo le varie suggestioni di Deleuze, nella topica temporale di
Differenza e Ripetizione declinata in tre sintesi? La prima, il presente vivente e l’abitudine. La rappresentazione è in questo caso preciso incapace di pensare la ripetizione che essa prende tuttavia a modello. Essa è, secondo la formula di Deleuze, «effettivamente impensabile […]. Essa si disfa mano a mano che viene a farsi». Sintesi degli istanti che la storia della composizione ha a lungo cercata: momento decisivo in cui scrittura musicale e percezione sono connesse in un movimento che non è né contemplativo, né riflessivo, ma che prolunga l’attività creatrice della musica. La seconda, il passato puro e la memoria, come se la prima sintesi fosse insufficiente e deficiente, biforcandosi quasi in modo naturale sulla seconda. Il presente,
presentando il tempo esso stesso, non cessa di transitare nel tempo che esso contribuisce a costituire. Unico modo per Deleuze di spiegare il tempo che passa: «se il passato non può essere l’antico presente, scrive Deleuze, è perché esso è l’elemento non derivato, primario, nel quale si mira ad esso, ciò a partire da cui, ciò in cui e attraverso cui il presente antico è posto e determinato come antico».
La terza sintesi temporale, la forma vuota e l’io incrinato. Sintesi che affetta la forma del tempo. Si tratterebbe senza dubbio di un prima e di un dopo, percorso obbligato di ogni narratività musicale, compreso quando questa emancipa le sue traiettorie, le deterritorializza dalla loro funzione de sviluppo e discorsività. Deleuze riprende le tesi di Aristotele e si basa risolutamente sulla figura della successione, insistendo sulle nozioni di contenuto piuttosto che di forma. La forma non succede alla forma. Proposizione assolutamente musicale, allorché noi la spostiamo verso l’apprensione, addirittura la comprensione e intellezione di un evento compositivo di tipo seriale o procedurale in vigore nelle musiche dette spettrali (tra il 1970 e il 1985).
Come pensare questa forma vuota? Come un battere, una durata, un ritmo, una ripetizione, una struttura, un aggregato, una serie, uno spettro dispiegato. Ed è proprio nel repertorio della musica seriale, notoriamente nel corpus delle opere di Webern e Boulez, che l’unità di misura obbligatoria in una tradizione in cui la scrittura è il luogo di tutte le rappresentazioni del fenomeno musicale, di tutti gli accidenti, e di tutte le scorie si oppone al destino del vuoto, istallando un ritmo, una battuta contemporaneamente visuale e operazionale, suscitando una suddivisione obbligata del discorso musicale, il più possibile emancipato e sgranato temporalmente. Una unità di misura che scandisce l’asse passato-futuro, inizio e fine, illustrando la diatriba di Deleuze e Guattari: «la misura è dogmatica, ma il ritmo è critico».
Si può supporre, interpretando ancora l’assunto di Deleuze, che se questo imperativo figurativo, questo codice di esibizione e puntualizzazione è necessario «è perché la forma vuota del tempo deve essere raccolta in una immagine d’insieme». Alla parola immagine un compositore opporrebbe quella di organizzazione, di materiale, di organizzazione del materiale, a volte anche di forma, alla luce del cattivo alibi che ne fa Deleuze. Come nasce la serie? Questione che la maggior parte dei compositori si sono posta dall’inizio del XX secolo fino agli anni ’60. Un primo stadio della risposta ammette che la serie non è sottomessa al caso e all’arbitrario. Essa non è neppure sottomessa alla natura rettilinea del tempo che passa, ma a delle leggi precise. Cercare di ottenere all’interno di una stessa opera il più grande numero di intervalli differenti, di ripetere la differenza in modo da modificare ostensibilmente la natura degli intervalli, implica una memoria che emerge nello stesso tempo, trascinando la nostra percezione nei meandri di questo tempo puro inassegnabile a una forma riconoscibile. Un tempo parabolico, iperbolico, in grado di mantenere la frase musicale nelle inflessioni incrociate, simultaneamente curve, cerchi, linee diritte ed ellissi. In breve, un rizoma, come tante varianti ai flussi e ai riflussi temporali propri alla musica.
Differenza di contenuto e
ripetizione formale di questa differenza: tale potrebbe essere come presa in scorcio una definizione della musica seriale. Definizione che Deleuze troverebbe senza dubbio immediatamente troppo adeguata alla sua filosofia. Infatti si tratta di prendere rapidamente le distanze da una possibile relazione di causa e effetto troppo dimostrativa, tanto nei riguardi della filosofia che nei confronti della musica; binomio indissociabile e tuttavia destinato a tenere separate le due parti, come se, frequentandosi, ciascuno dei membri del binomio corresse il rischio di sparire, o almeno di subire una alienazione metaforica. Fabbricare una metafora musicale a partire dalla filosofia, o fabbricare la metafora filosofica a partire dalla musica sarebbe in definitiva il vero tradimento. Deleuze pensa la musica con una infinita discrezione. Qualche riferimento qua e là, più spesso un silenzio che apre le grandi porte della creazione musicale su un rinnovamento che negli anni ‘80 non si aspettava più. Deleuze, l’intruso, impone a sua insaputa ritornelli e rizomi, là dove le leggi in vigore nella composizione portano in alto l’idea della coerenza formale, di ideologia del materiale divenuto tirannico e aporetico. E sempre in occasione del suo intervento all’
Ircam, in questo luogo così carico all’epoca di convinzioni formali e d’adesione alla onnipotenza del materiale non redimibile dalla dialettica forma-materia in vigore fino alla fine del XIX secolo, Deleuze dichiara risolutamente: «noi siamo condotti, credo, da tutte le parti, a non pensare più in termini di materia e forma. Al punto che alla gerarchia che andrebbe dal semplice al complesso, materia-vita-spirito noi abbiamo già smesso di credere in tutti i campi […]. Tutta questa gerarchia materia-forma, una materia più o meno rudimentale e una forma sonora più o meno saggia, non è proprio ciò che noi abbiamo smesso di capire [udire] e ciò che i compositori hanno cessato di produrre?»
Il materiale è in sé così elaborato che può prescindere dalla forma. Diviene ormai presente come potenza d’evento, svuotato d’un senso altro rispetto al primato della sua elaborazione concreta, quasi tangibile. Una volta liberato da ogni gravame dialettico, il materiale libera a sua volta delle forze vitali secondo un percorso clinico e non più astratto che la nostra percezione è in grado di captare. Deleuze soppianta il concetto di forma con quello di forza, comprendendovi quei repertori che hanno conservato la traccia della fusione anteriore della coppia forma-materia; fusione rinascente, contro ogni attesa. La scelta delle opere proposte da Pierre Boulez è eloquente per quanto riguarda tale appianamento anteriorità/presente, tale indifferenza di certi compositori nei confronti dello sradicamento dalla loro musica di ogni traccia di ciò che fu. Essi operano per trasformazione, per sviamento e spostamento permanenti delle funzioni interne delle leggi della composizione. Il
Dialogo del vento e del mare di Claude Debussy è l’esempio tipico di un’opera la cui forza di affrancamento è mediatrice, tra la suggestione della sua origine e l’affermazione del suo presente, un
continuum temporale che tenta di cancellare, senza farlo sparire totalmente, l’elemento di unione tra trascendenza e immanenza. E tuttavia, la forza del materiale soppianta la qualità transizionale dell’opera di Debussy; la soppianta e la smuove. Deleuze arriva ad affermare che «il materiale è lì per rendere udibile una forza che non sarebbe udibile per se stessa, ovvero il tempo, la durata, e anche l’intensità».
Rovesciamento dell’assiomatica categoriale, secondo la quale la musica è l’arte dei suoni e il suono obbedisce a una gerarchia di parametri che lo costituiscono. Questione di codice per Deleuze, e questo è differente secondo le epoche e le scuole. Se si tratta di musica tonale classica (Haydn, Mozart, Beethoven), il codice corrisponde a una struttura, ovvero a un sistema che autorizza delle combinazioni previste dal gioco della percezione; combinazioni prestabilite e distribuite nella partizione, ognuna di esse essendo colpita da opzioni imperative, secondo uno schema d’alternanza binaria: maggiore/minore, tensione/distensione, stabilità tonale/modulazione.
A contrario, nella musica dodecafonica, il codice non è che l’insieme dei dodici suoni della gamma temperata, almeno a prima vista. E nessun principio sembra reggere la loro messa in opera, se non l’obbligo di utilizzarli tutti. Nell’
ouverture di Mythologiques, Lévi-Strauss evoca, in risposta a un testo di Pierre Boulez, la possibilità di una struttura della musica seriale che funzionerebbe a nostra insaputa. Nella musica tonale il codice non può essere assimilato a un campo di forze, soprattutto nella sua forma romantica, perché rappresenta la pseudo-originarietà di un locutore che si dà come fonte assoluta dei suoi stessi messaggi. La polarizzazione del sistema sulla coppia leggendaria tonica/dominante occulta la struttura e diviene l’espressione della nostra libertà interiore, aprendosi su un orizzonte indefinito di
modulazioni. L’identico processo è all’opera nel rapporto indissociabile tra il modo maggiore e il modo minore. Ma l’archeologia più radicale è quella che rimette in discussione la preminenza del soggetto, rivelando il funzionamento di una struttura che egli non domina più, arrivando fino ad identificarsi con una figura della sua libertà e della sua autonomia. Nelle musiche seriali di Webern, Boulez, Stockhausen, Nono per esempio, nessuna polarizzazione viene ad occultare la struttura.
Il principio di individuazione non si richiama a un soggetto, sebbene perduri ciò che Deleuze rifiuta o non percepisce che in modo parziale: il processo mimetico e dialettico di una materia lavorata contro una forma e non più con essa. Da qui l’idea che nel XX secolo la musica, nelle sue pieghe e nei suoi recessi successivi, nel suo dispositivo riflettente le condizioni critiche della sua esistenza, si distacchi da ogni asservimento ad un linguaggio o da ogni attitudine a erigersi a linguaggio significante, riarticolandosi, o almeno connettendosi e sagomandosi sulle molteplicità di segni aperti su concetti nuovi.
In questa cartografia delle regioni musicali, il passaggio alla composizione è pensato come una linea di fuga al di fuori dei sistemi stabili e preformati. Per questo motivo la musica potrebbe ben rappresentare ciò che Deleuze in
Mille plateaux intravede dell’arte: «uno strumento per tracciare linee di vita».
Se il punto di partenza della musica non risiede più in una sovracodificazione della lingua e non conduce più a ciò che Lévi-Strauss, citando Wagner, chiama «lettura micrologica», ma piuttosto essa costituisce ormai una cartografia di percetti ed affetti metastabili, allora ciò implica una deterritorializzazione della frase musicale. Liberare lo schema discorsivo della linea melodica, in modo che questa non rappresenti più né un’altezza, né un ritmo, né una durata o un timbro particolare assegnabile a una funzione, ma una molteplicità di assestamento [
agencements] [1] che non dipendono più da una forma unificabile o «unificativa» secondo l’espressione di Deleuze. La musica parlerebbe, penserebbe su un fondo di singolarità, nell’anticamera di una monade acustica che mette in vibrazione la materia vivente della composizione e delle sue variabili. Una forma d’empiria musicale, di cui Deleuze sottolinea che essa non è «né metrica, né cadenza, né misura qualsiasi regolare o irregolare, ma [derivante dalla] azione di certe coppie molecolari rilasciate attraverso degli strati differenti e dei ritmi diversi. Non è soltanto per metafora che si può parlare di una scoperta simile in musica: molecole sonore piuttosto che note e suoni puri».
Argomentazione rigorosamente conforme a ciò che un compositore come Karlheinz Stockhausen elaborò in
Carré per quattro orchestre e quattro cori, scritto tra il 1959 e il 1960, diciotto anni prima della conferenza di Deleuze all’
Ircam. Stockhausen, probabilmente l’unico compositore ad aver veramente elaborato un pensiero del tempo musicale, lavora su dei fenomeni di spazializzazione suscettibili di integrare un nuovo rapporto tra suono, spazio e tempo. Tale progetto s’accompagna a una capacità formalizzata sulla partizione di anticipare il grado di pre-udibilità del cambiamento tra ogni evento e il suo successore. Musica molecolare, di cui si può dire in termini di composizione, che essa è provocata dalla presenza di una serie di dodici
tempi per esempio, costruita secondo le relazioni di intervalli legati a uno spettro armonico periodico, il quale è trasposto secondo un sistema di registrazione integrante le differenze tra le durate e i
tempi, essa stessa in correlazione con una distribuzione di altezze ripartite su questa suddivisione del ritmo.
Karlheinz Stockhausen precisa, in un testo che egli redasse nel 1956, «wie die Zeit vergeht», richiamandosi esplicitamente a delle opere strumentali e, nello specifico
Zeitmasse (1955-1956),
Gruppen für drei Orchestren (1955-1957) e
Klavierstück XI (1956): «il passaggio da una suddivisione un’altra, da una delle regioni del tempo all’altra suscita una sensazione di mutazione di fase». Priorità che diviene l’elemento di base di una nuova morfologia dl tempo musicale. Perché, partendo in effetti da sette a otto ottave di altezza, il tempo musicale è così definito da quattordici a quindici ottave temporali, all’interno delle quali il compositore stabilisce i suoi rapporti di fase, tanto nelle regioni delle durate che in quelle delle altezze e dei timbri parametro privilegiato della musica del XX secolo. Da qui l’idea di un campo metastabile di forze vive, di peregrinazioni sonore che non si lasciano pensare in se stesse che a condizione di misurare delle superfici immanenti a una dinamica di incremento. Stockhausen aggiunge: «colui che vive un tempo musicale come un tempo multidimensionale comporrà delle opere che saranno esse stesse multidimensionali; e ai suoi occhi, proporzioni misurate o sentite, tempo quantificato e campo temporale, determinazione sistematica e aleatoria rappresentano degli estremi tra cui v’è spazio per una serie di variazioni».
Da parte sua, Deleuze insiste sull’importanza di una percezione della musica che sottolineerebbe un principio di individuazione che non si richiami al soggetto. Il concetto di
ritornello elaborato in
Mille plateaux con Félix Guattari mi sembra il più adeguato per pensare questo principio. Dal momento che l’idea di ritornello riguarda un luogo, una organizzazione, un assestamento [
agencement] territoriale, essa permette in effetti di pensare i rapporti tra i movimenti di territorializzazione e deterritorializzazione. La posta di questo rapporto è l’arte. Tutto accade come se la questione dell’arte, e in particolare della musica, supponesse questo assestamento [agencement] territoriale primo, a fronte del fatto che è necessario d’altro canto scorporare il tempo musicale. Esistono molti modi e molte funzioni di ritornello. Dalla melodia che canticchia un bambino nel buio allo scopo di rassicurarsi, fino ai ritornelli codificati che gli animali e gli uccelli utilizzano per marcare il territorio. Il assestamento [agencement] territoriale del ritornello implica una marcatura singolare che possiede una autonomia d’espressione, capace di produrre delle relazioni composizionali territorializzate. Ma questa condizione implica a sua volta l’emergenza di sensibilia insieme di qualità sensibili e effettive che non dipendono più da dati espressivi, ma si trasmutano in veri tratti, figure d’espressione. Il ritornello traduce questo stato d’espressione ed eccede il quadro del territorio. Il fine ultimo e immanente alla musica è di «deterritorializzare il ritornello», liberare l’espressione, farla risalire alla superficie del territorio sonoro in questione. Essa si libera del codice da sola, diventa a-grammaticale, eterno ritorno nietzscheano che «cattura le forze mute e impensabili del Cosmo», scrive Deleuze, un «cristallo di spazio-tempo».
È essenzialmente con Robert Schumann, uno dei compositori preferiti di Félix Guattari, che il ritornello perviene a questo risultato
semplice e
sobrio d’essere deterritorializzato. Prendendo come punto di riferimento il
Concerto per violoncello, Deleuze e Guattari dimostrano come, più l’architettonica dell’orchestra, i suoi assestamenti [
agencements] e le sue suddivisioni quasi topici sono
marcati, più il violoncello erra, «come una luce che si allontani e si spenga». Relazione assolutamente conforme alla storia della forma
concerto. La tensione dialettica tra il collettivo e l’individuale è mantenuta, a dispetto di tutti i traviamenti e di questa forza cosmica, già indotta in Schumann, che suggerisce il materiale. Ciò ci autorizza a stabilire un legame con la questione dell’individuazione musicale senza soggetto. Sarebbe questa allora la capacità della musica di produrre, non soltanto dei concetti, ma delle frasi che, senza passare attraverso il filtro delle corrispondenze, avviluppano l’immagine di un cosmo e, di conseguenza, di una analogia possibile con altri mondi. Deleuze pone chiaramente la questione: «che cosa richiede l’individuazione di una piccola frase in musica?». E, erigendo lo schema delle principali superfici di espressione in vigore presso diversi repertori, egli si richiama al livello più rudimentale dell’esperienza condivisa in modo equilibrato da ognuno di noi. «Capita che una musica ci ricordi un paesaggio. Così, l’episodio celebre di Swann, in Proust: il
bois de Boulogne e la piccola frase di Vinteuil. Capita anche che dei suoni evochino dei colori, sia per associazione, sia attraverso fenomeni detti di sinestesia. Accade infine che dei motivi in alcune opere liriche siano legati a delle persone, per esempio un motivo wagneriano è chiamato a designare un personaggio. Un tale modo d’ascolto non è affatto vano o senza interesse, forse soltanto a un certo livello di distensione bisogna passare per esso, eppure ognuno sa che questo non basta. Il fatto è che, ad un livello di maggior tensione, non è il suono che rinvia a un paesaggio, ma la musica stessa che contiene un paesaggio propriamente sonoro che le è interno».
Interiorità di un paesaggio propriamente sonoro designato dalla frase e dentro di essa. Esatto contrappunto alla «nota che vi segue» e al «suono che vi attraversa» che evocano Deleuze e Guattari. E tuttavia, la nota è nel suono quest’altra immanenza assoluta. Essa contribuisce alla sua fenditura e finalmente alla sua deliquescenza a priori.
Deleuze non spiega il ritornello nei confronti della storia: storia della melodia, per esempio, della costituzione dei motivi e dei temi. Lo spiega nei confronti del Cosmo: «produrre un ritornello deterritorializzato come scopo finale della musica, lasciarlo nel Cosmo è più importante che farne un nuovo sistema». Per questo motivo il tempo musicale non si misura secondo la codificazione normativa dell’unità di misura, ma secondo la ripartizione dei ritmi e delle durate che hanno come posta l’acentralità fondamentale di ogni ritornello volto verso il Cosmo, l’anti-genealogia di ogni costruzione rizomatica, il nomadismo di tutta l’onnipotenza di evento che avviene nel presente. Le figure di ritmo e intensità sono, in quest’ordine di disfatta, il paradigma della insurrezione contro la metrica. In effetti, nessun ritornello che abbia compiuto il suo destino di ritornello non può misurarsi sulla base del tempo misurato e circoscritto interno a una forma fissa. La musica è proprio una mangiatrice di tempo, secondo l’affermazione di Schönberg, inalienabile rispetto al tempo stesso, un tempo che si rovescia contro il tempo. E questo principio di rovesciamento sarebbe la condizione della salvaguardia della musica. A questa infernale coppia materia/forma, Deleuze sostituisce una percezione, non più esatta, o migliore, o più assoluta dal momento che per lui non esiste orecchio assoluto ma più impossibile. Più si acquisisce un orecchio assoluto, più il compositore può rendere udibile le forze che non lo sono in se stesse; delle forze impercettibili che il materiale catalizza e rende precisamente accessibile ai nostri sensi.
Si tocca qui la questione di ciò che si potrebbe denominare l’eterogeneità della musica. Il materiale ci permette di percepire non soltanto le forze composizionali in azione, le differenze tra le forze, ma ugualmente il gioco differenziale di queste forze. Musica come eterogenesi.
* Per un inquadramento di questo saggio vedi, in questa stessa sezione, G. Crivella, Deleuze e la questione del ritmo. Nota a Danielle Cohen-Lévinas.
[1] Data limportanza del termine /agencement/ - da noi qui reso con /assestamento/ - in Mille plateaux segnaliamo sempre fra parentesi quadre le sue occorrenze nel corso del testo.
Danielle Cohen-Levinas (Parigi 1959), pianista, musicologa e pensatrice francese. Dal 1989 al 1992 è stata capo-redattrice della rivista dell’Ircam (Institut de recherche et coordination acoustique/musique), diretta da Pierre Boulez. Dal 1996 al 2002 ha rivestito il ruolo di direttrice di programma al Collegio internazionale di Filosofia di Parigi. Divenuta professoressa a Paris IV nel 1998, vi fonda prima il Centre d’esthétique, musique et philosophie contemporaine e poi, nel 2008, il Collège des études juives et de philosophie contemporaine, ribattezzato Centre Emmanuel Lévinas nel 2012. Alle sue ricerche propriamente musicologiche, Cohen-Lévinas ha sempre affiancato un grande interesse per la filosofia ebraica, alla cui diffusione ha contribuito tramite studi su Scholem, Rosenzweig, Bloch, Benjamin. Attualmente è presidente dei Cahiers Maurice Blanchot, fondati insieme a Monique Antelme e Mike Hollande nel 2010. Principali opere: La création après la musique contemporaine, L’Harmattan, 1998; Le Style et l'Idée d’Arnold Schönberg, nuova edizione Buchet/Chastel 2002; Emmanuel Lévinas: pour une philosophie de l'hétéronomie (dir.), Bayard, 2006. È inoltre autrice di poesie e prose letterarie Le soleil est grammatical, Mercure de France, 2004.
Gilles Deleuze, Le Voyageur, 1972 (Heldon, "Schizo", Richard-Pinhas)